s2Martin Scorsese è un gigante del cinema e ogni sua nuova opera aggiunge un tassello di pregio alla già ricca filmografia. Se i blockbuster tendono alla semplificazione del gusto che omologa e non porta riflessione, Scorsese con il suo ultimo film, Silence, si cimenta con un tema, quello della Fede in Dio, tale da generare profondi e ardui meccanismi di pensiero.

Lui stesso ha sentito in sé i crismi di una vocazione giovanile e solo l’assenza di una ‘chiamata’ lo ha fatto desistere dall’idea di farsi prete. Tutta la sua carriera, ogni suo film, in qualche dettaglio, magari minimo, testimonia la tensione del suo intimo sguardo verso l’uomo nella sua ricerca di Dio.

Silence è il frutto di trentanni di preparazione fin da quando, nell’88, l’arcivescovo Paul Moore, all’indomani dell’uscita del discusso L’Ultima Tentazione di Cristo, suggerì a Scorsese di leggere Shusaku Endo e il suo Silenzio.

La lettura di quel romanzo ha dato inizio alla tormentata gestazione di un film finalmente giunto sugli schermi.

Silence racconta un episodio dell’ultima fase della persecuzione, avvenuta nel XVII secolo, ad opera del governo giapponese, nei confronti della temuta diffusione del cristianesimo cattolico tra la popolazione, il cui allontamento dalla religione ufficiale, propiziato dai missionari perloppiù gesuiti, veniva considerato una pericolosa ingerenza dell’Occidente.

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Due giovani missionari portoghesi si recano in Giappone alla ricerca del loro padre spirituale del quale si sono perse le tracce. I due giovani, padre Rodriguez (Andrew Garfield) e padre Garupe (Adam Driver) partono con grande entusiasmo e fede granitica, certi di ritrovare il loro amato padre Ferreira (Liam Neeson) per smentire le false notize sulla sua apostasia. Sono perfettamente consci di potere andare incontro al martirio in un Paese dove decine di migliaia di cristiani sono caduti vittime di torture indicibili prima dell’inevitabile sentenza di morte.

Se inizialmente riescono a farsi accogliere da piccole comunità cristiane, devono poi fare i conti con la persecuzione. Padre Garupe non indietreggerà, non cederà alle torture e seguirà la via del martirio. Padre Rodriguez, venuto a contatto diretto con il grande inquisitore, vivrà la sua più profonda ‘notte oscura’ della Fede e sentirà il peso del Silenzio di Dio attraverso il quale, per vie insondabili, seguirà il suo cammino spirituale.

Scorsese segue passo passo il tormento di padre Rodriguez. Lo pone a confronto con il contadino Kichijiro nei suoi continui tradimenti e pentimenti. Lo mette poi di fronte alla propria coscienza e anche al punto di vista dei giapponesi verso gli ‘arroganti’ padri missionari, i quali non si sono curati della loro cultura, ma hanno voluto imporre una verità considerata assoluta, calpestando ogni discrezione nell’approccio con un Paese dalla storia millenaria.

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Sono le differenze culturali a scrivere i capitoli della Storia e allora, chi può arrogarsi il diritto di imporre i propri valori su chi è diverso. Ovvero non può esistere una sola verità assoluta, giustificando così e significando una delle possibili chiavi di lettura di Silence. Ma il film ‘impone’ riflessioni ben più intime senza fornire risposte, bensì solo interrogativi.

Infine Scorsese si manifesta in una particolare tenerezza nel centrare l’obbiettivo su di un minuscolo crocifisso di legno, nascosto agli aguzzini. In quel minimo sudario si manifesta un amore, che più grande non può essere, ben oltre la miseria di una fragilità umana, destinata in quanto tale a piegarsi dopo essersi tronfiamente inorgoglita di fronte al nulla della propria vanità.

Grande meriti vanno attribuiti al grande Dante Ferretti al quale Scorsese si è rivolto per le scenografie e i costumi di Silence. Ben 2000 ne sono stati  confezionati per vestire attori e comparse che hanno popolato le location di Taiwan dove sono stati costruiti i set, curati in ogni minimo dettaglio.

Grande artigianato è la risposta del cinema di Scorsese e dei suoi collaboratori per offrire ancora una volta la cifra di un cinema vivo, essente ed essenziale, tale da perpetrare il segno della 7° arte.

 

 

 

Dario Arpaio

 

a3L’idea di portare sullo schermo Assassin’s Creed, uno dei videogiochi Ubisoft in assoluto tra i più amati e seguiti, si è giocata un forte azzardo condito con un pizzico di incoscienza. Ma se a volere fortemente l’operazione è uno degli attori iconici del nostro tempo come Michael Fassbender, ebbene, il margine di rischio ci poteva stare.

Quasi tutti i precedenti tentativi di trasformare giochi interattivi in soggetti cinematografici non hanno dato grandi risultati. Tra tutti ricordiamo il flop di Prince of Persia e il recente Warcraft fracassone.

La computer grafica affascina ed esalta, ma non può sostituirsi in toto in presenza di una sceneggiatura debole, ove questa sia tale. Un film è un delicato assemblaggio certosino di parti interconnesse tra loro e fortemente dipendenti l’una dall’altra. Se una di esse è gracile, può crollare tutto l’impianto.

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Va detto che, nel caso di Assassin’s Creed, la Ubisoft ha tentato di limitare i rischi supervisionando strettamente l’andamento dei lavori della pellicola da lei stessa coprodotta unitamente alla 20th Century Fox e, tra gli altri, alla stessa DMC Films di Michael Fassbender, protagonista a tutto tondo.

Insomma, gli ingredienti per un’operazione volutamente lanciata verso il successo sono stati bene amalgamati fin dalle prime battute. Si consideri pure che la sceneggiatura è stata costruita sulle basi dell’universo del gioco Ubisoft, articolando e orchestrando alcune varianti sull’originale trama del videogame.

La regia è stata affidata a Justin Kurzel, reduce dal suo discusso Macbeth, interpretato dallo stesso Fassbender con Marion Cotillard, che si ritrovano protagonisti di nuovo insieme in Assassin’s Creed. Il primo nei panni del detenuto Callum Lynch e del suo antenato Aguilar De Nerha. La seconda in quelli della scenziata Sophia Rikkin.

Se Fassbender fa sfoggio di grande disinvoltura recitativa e atletica, la Cotillard risulta un po’ imbalsamata e poco espressiva.

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Veniamo alla storia che narra della eterna lotta tra la setta degli Assassini, paladini della libertà dell’uomo, contro i cupi Templari, desiderosi di prevalere nel dominio sul mondo intero.

Il detenuto Callum viene salvato dalla condanna a morte dalla potente Fondazione Abstergo, con a capo il cinico e spregiudicato Alan Rikkin, legato ai Templari, interpretato da Jeremy Irons,.

Le doti di Callum e la sua innata aggressività, lo hanno designato come possibile candidato per entrare a far parte del progetto Animus, capace di stimolare una sorta di regressione genetica.

L’intento è quello di trasformare Callum nel suo antenato Aguilar, l’unico della setta degli Assassini in grado di recuperare la Mela dell’Eden dalle grinfie dei Templari, i quali vorrebbero usarla per annullare gli effetti del primo peccato originale e del libero arbitrio. Ciò varrebbe a eliminare da un lato l’aggressività, dall’altro la libertà dell’uomo.

Callum viene catapultato dall’Animus nella Spagna del 1492, nel pieno della Grande Inquisizione capeggiata dal terribile Torquemada e si ritrova a dover sfuggire al rogo, salvandosi insieme alla bella Maria Cordova, interpretata da Ariane Labed, per lanciarsi a più riprese all’inseguimento della preziosa Mela e del suo potere.

Ma davvero l’umanità dovrebbe essere ancora interessata alla sua libertà quando invece pare non inseguire altro se non la vanità nei suoi effetti materiali?

La regia di Justin Kurzel, comunque, offre il meglio negli inseguimenti mozzafiato e nelle strepitose esibizioni di parkour, nonché in un grande sfoggio di arti marziali alla Matrix. Anche l’ambientazione della Spagna del ‘500 è ammirevole, così come lo era quella sensazionale del videogioco.

Come già accennato Fassebender dimostra di essere perfettamente a suo agio, in tutto e per tutto, nel suo personaggio. Anche se non sembra più l’interprete strepitoso di Hunger (2008) o di Shame (2011), i due film per la regia di Steve McQueen, che gli hanno tributato plausi e riconoscimenti ovunque.

Assassin’s Creed, in conclusione, si propone con qualche ambizione di troppo nel tentativo di nobilitare la trama con un assunto in più, diverso da quello sparatutto del videogioco, anticipando sequels su sequels. Nonostante la presenza nel cast di Marion Cotillard, Jeremy Irons, Charlotte Rampling, Brendan Gleeson, il film rimane monco, un gradevole intrattenimento da ottovolante ipertrofico fine a se stesso.

Dario Arpaio

 

 

 

 

 

 

p2Paterson è una cittadina del New Jersey. Conta circa 150.000 abitanti. Una città come tante, ma con alcune peculiarità. Ci hanno vissuto William Carlos William, Allen Ginsberg, Wallace Stevens, Frank O’Hara. Tutti poeti eccelsi. Hanno scritto i loro versi pur impegnandosi in altri lavori per sbarcare il lunario, perché, è risaputo, di poesia non si vive.

E Jarmusch arriva idealmente a Paterson direttamente dalla lontana Tangeri dove solo gli amanti sopravvivono, città dove, peraltro lui stesso amerebbe trasferirsi in una vecchiaia colorata di poesia, e Paterson diviene anche il nome del protagonista del suo nuovo film, che nasce e vive nella città della quale porta il nome. Così ha inizio la storia che ha incantato i festival di Cannes, New York, Toronto.

Paterson è l’autista del bus della linea 23. Tutte le mattine si reca al lavoro in un tempo cadenzato lento e sempre uguale. Nella sportina della colazione c’è un sandwich, un frutto e anche una foto di Laura, sua moglie, e una di Dante Alighieri, quest’ultima contornata da un bocciolo di rosa rossa. Paterson vive tutta la sua vita nei versi che scrive sul taccuino dal quale non si separa mai. Ogni piccolo accadimento della sua giornata diventa poesia riposta nel quadernetto. C’è spazio anche per poetar d’amore sui fiammiferi di casa, che diventano quasi un contrappunto ai tre di Prévert, ma con la genuinità propria di Paterson, con la sua poesia delicata e originale, figlia della migliore impronta di William Carlos William.

La vita di Paterson scorre leggera e serena alla guida del suo bus della linea 23, lungo le strade di una città dove spesso si incrocia lo sguardo con coppie di gemelli e dove nulla sembra mutare. Eppure ci aveva vissuto anche il nostro eroico Gaetano Bresci, prima di decidere che un re andava punito per la sanguinosa repressione dei moti di un popolo affamato. Jarmusch ce lo fa ricordare attraverso le chiacchiere di una coppia di ragazzi, passeggeri del bus della linea numero 23, che altri non sono che i due piccoli innamorati di Moonrise Kingdom, ancora insieme sullo schermo dopo le magie sottili di Wes Anderson.

Il film si snocciola nell’arco di una settimana dove apparentemene non succede altro che piccola deliziosa vita. E’ Laura, la moglie di Paterson, a subissarlo di idee bizzarre che colorano di bianco e nero tutta la casa, dove pigramente, ma solo apparentemente inerte, Marvin, il bulldog, li osserva sornione. Magari è proprio lui ad avere le chiavi di una svolta nel futuro.

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Paterson, così come Jarmusch, rifiuta il cellulare o il computer. Sono sufficienti una penna e un taccuino per vivere la vita appieno, per non smarrire i più minuti accordi della danza dei giorni, sempre uguale e sempre nuova. A che vale la bramosia del futuro, se non ha ancora un colore, mentre si smarrisce il presente ricco di sfumature minute che altro non chiedono se non essere svelate ed essere riposte con cura nello scrigno della memoria.

Giorno dopo giorno Laura forse sfornerà altri cupcakes e imparerà a suonare la chitarra. Certamente Paterson continuerà le sue alchemiche scritture. Il cane Marvin si farà condurre nel passeggio serale, borbottando fino al bar del saggio Doc, dove la stessa umanità colorita si ritroverà negli stessi piccoli e consumati amorevoli litigi.

Jarmusch firma un grande film fatto della stessa sostanza della poesia, riuscendo, pur con grande dispendio di energie, a mantenersi integro nel suo essere caparbiamente magnificamente indie.

Adam Driver è Paterson e rimarca le già notate grandi qualità interpretative. Lo rivedremo a breve in Silence, l’attesissimo nuovo film di Scorsese. La bella e brava Golfshifteh Farahani è la deliziosamente vulcanica Laura. E il bulldog Marvin, in realtà, è una femmina.

Dario Arpaio

 

 

 

 

 

 

3pL’attesa per il nuovo fim di Tim Burton è stata grande. I fan si aspettavano una nuova sposa cadavere, oppure un altro Edward-mani-di-forbice, e perché no, magari un big fish, o un’avventura nella fabbrica di cioccolato. Ed ecco il nostro che si è dedicato anima e corpo al romanzo del giovane Ransom Riggs.

Riggs, dopo aver collezionato una serie di vecchie fotografie, raccolte nei mercatini di cianfrusaglie, ha successivamente ideato una vicenda a mezzo tra il fantasy e l’horror, La casa per bambini speciali di miss Peregrine, pubblicato per la prima volta nel 2011 e ripubblicato nel 2016 in occasione dell’uscita del film dal titolo miss Peregrine e la casa dei bambini speciali.

Buona fortuna editoriale stanno ottenendo anche i due sequel, Hollow City e l’ultimo della trilogia, La biblioteca delle anime.

Poi è arrivato lui. Per il suo film, Tim Burton si è avvalso della sceneggiatura di Jane Goldman, appassionata di paranormale, autrice, tra gli altri, dello script di X-Men, L’inizio e di Kingsmen, Secret Service.

I presupposti per alimentare un’attesa trepidante ci sono stati davvero tutti per una storia di freaks coinvolti in loop temporali contro i cattivi, i Vacui, pronti a divorare gli occhi delle loro vittime.

Dopo la misteriosa morte dell’amato nonno, Jacob si reca nel Galles per inseguire le tracce del passato del vecchio, che tanto ha influito sulla sua infanzia con i racconti di bambini dotati di strani poteri.

Il ragazzo parte alla ricerca della casa misteriosa e della direttrice altrettanto fantastica dei quali ha tanto sentito parlare dal nonno. Non sa ancora che si troverà coinvolto nell’eterna lotta del bene contro il male, qui incarnato da orrendi mostri divoratori di occhi all’inseguimento della vita eterna.

La direttrice, miss Peregrine, capace di trasformarsi in un falco pellegrino, lo accoglie a braccia aperte e via via gli spiega le peculiarità della misteriosa casa, abitata da ancor più incredibili bambini superdotati e dei pericoli dai quali deve proteggerli.

Jacob viene a contatto con il bambino invisibile, la bimbetta dalla forza erculea, quello che sputa sciami di api, i gemelli mascherati e con gli altri freaks, tutti dotati di superpoteri, che sembrano un’emanazione dalle foto di Diane Arbus .

Colei che più affascina Jacob è senza dubbio Emma, più leggera dell’aria, costretta a calzare pesanti scarpe di piombo per non volar via, che si mostrerà capace di padroneggiare il suo elemento con il fiato.

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miss Peregrine protegge amorevolemente, benchè con estrema fermezza, i suoi ragazzi speciali. Soprattutto dal villain di turno, il terribile e temible Barron che con i suoi Vacui, meglio chiamarli Hollowgast, è alla caccia di tutti i bambini ‘peculiar’ per privarli degli occhi e acquisire il loro potere.

Il magico mezzo per la salvezza dei ragazzi è dato da un continuo loop temporale che consente a miss Peregrine di tenere la casa nascosta, al riparo dai pericoli. Tant’è il temibile Barron non tarderà a contrastare l’incantesimo e l’inevitabile battaglia avrà inizio.

Burton regala ai fan alcuni dei tocchi magici del suo campionario di grande regista visionario. Usa con maestria e discrezione lo stop-motion, ma solo a tratti (tecnica che necessita di un lungo e costoso tempo di produzione). Adotta a piene mani tutto ciò che la computer grafica è in grado di garantire allo spettacolo e forse eccede nel suo utilizzo, sebbene alcune sequenze siano pregevoli (l’emersione della nave sommersa, la grande battaglia del luna park).

Ma resta sempre inequivocabilmente lui, Tim Burton, ad avere l’ultima parola, anche se a fronte di una sceneggiatura a tratti un po’ raffazzonata, che non sempre rende merito ai magnifici bambini speciali di Riggs.

Eva Green è miss Peregrine, dal fascino vagamente dark e conturbante. Come lei poche attrici sono capaci di giocare al meglio con il mistero. Quello lo tiene così ben celato dietro i suoi magici occhi.

Asa Butterfield è Jacob, il protagonista. Arriva direttamente dall’Hugo Cabret di Scorsese. E’ cresciuto, ma risulta un po’ monocorde e scialbo nella sua interpretazione.

Di ben diverso spessore è Ella Purnell nei panni di Emma, la ragazzina dominatrice dell’aria, che si avvia a una carriera di successo. Ne sentiremo parlare spesso.

Ben poco si può dire del villain Barron, interpretato dall’onnipresente ghigno di Samuel L. Jackson. E’ sempre lui, inconfondibile, a dare corpo ai suoi personaggi, sebbene le prove migliori le abbia offerte con le regie di Quentin Tarantino.

Quasi un cameo, un’incolore presenza della grandissima Judi Dench. Molto meglio risulta Terence Stamp nei panni di un nonno iperprotettivo e visionario.

Ma… chi ha riconosciuto Rupert Everett? Chi l’ha visto?

In conclusione, Tim Burton rimane l’indiscusso maestro di un certo cinema visionario, ma c’è da aspettarsi quel tocco magico in più che lo ha sempre contraddistinto, sempre che non si lasci traviare dalle produzioni mainstream. Facci sognare ancora Tim.

Dario Arpaio

 

 

 

 

 

 

 

 

4Il Cittadino Illustre della coppia di registi argentini Gaston Duprat e Mariano Cohn ha piacevolmente sorpreso il recente festival veneziano, ricevendo la nomination per la miglior regia e ottenendo la Coppa Volpi per il bravo attore protagonista Oscar Martinez.

La sceneggiatura di Andrés Duprat racconta di uno scrittore, Daniél Mantovani, che si vede aggiudicare il Nobel per la letteratura. L’ambìto premio, ancorchè gradito, risulta per lui quasi spiazzante. Perché proprio a lui, unico argentino prima di altri illustri, Borges su tutti, viene assegnato un così alto riconoscimento? Proprio a lui che sceglie di vivere quasi nascosto dal mondo?

Il discorso tenuto durante la premiazione, dinanzi all’accademia e ai regnanti, è altrettanto spiazzante. Daniél sceglie di non indossare nemmeno il frac (chissà come si presenterebbe Bob Dylan), e si dimostra, in parte, disinteressato, infastidito da così tanto clamore.

Duprat e Cohn avviano un percorso narrativo che snocciola i temi stessi di una creazione letteraria, dove tutto si alterna al contrario di tutto, tra realtà e finzione. Dove lo scrittore si figura quasi come una libellula mummificata in una dimensione manipolata.

I registi utilizzano, magnificamente, un tono apparentemente dimesso che sviluppa una commedia amara da quando lo scrittore decide, contro ogni suo costume, di tornare a Salas, il paesello di origine, dal quale è fuggito trentanni prima, per mai più tornare a quel provincialismo gretto e grottesco al tempo stesso.

Decide di accettare l’invito del sindaco per essere insignito del titolo di Cittadino Illustre. Un grande onore per lui, ma soprattutto per il paese e ancora di più per il politicante attento al marketing della sua immagine.

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L’accoglienza dei paesani è comicamente spiazzante per Daniél Mantovani, sempre al centro dell’attenzione. Viene richiesto da chiunque e seguito per strada. Fotografato e ripreso. Proprio lui, avvezzo a rifiutare ogni apparizione pubblica, si trova coinvolto in un grottesco programma televisivo o in una penosa, quanto ridicola premiazione di ignobili quadri, croste meno che dilettantesche.

Ma il ritorno al paese natio motiva anche il recupero del passato sentimentale dello scrittore. Si ripresentano, con un velo di malinconia, i volti e le storie da lui stesso utilizzate nei suoi romanzi.

La breve permanenza assume toni drammatici quando l’entusiastica accoglienza iniziale si tramuta in astio ossessivo, volgare e violento.

Chi è il vero Daniel Mantovani? Un cinico romanziere o un letterato convinto del suo ruole di agitatore delle coscienze? Realtà e finzione magnificamente giocate in contrappunto.

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Il Cittadino Illustre, fresco prodotto del cinema argentino, verrà proposto dal suo Paese all’Academy per la corsa all’Oscar come Miglior Film Straniero, laddove la concorrenza sarà piacevolmente agguerrita.

D.A.