James Gray, regista e sceneggiatore newyorkese, esordisce nel 1994 a Venezia, aggiudicandosi il Leone d’Argento per la sua opera prima Little Odessa.
Di lui si possono citare i successivi Two Lovers (2008) e C’era una volta New York (2013). Pellicole di un certo interesse, forse sottotono rispetto all’esordio.
Gray prosegue per la sua strada senza cedere alle lusinghe delle varie proposte di Hollywood. Vuole camminare, senza compromessi, nel segno del ‘suo’ cinema, con la ‘sua’ impronta anche nella scrittura.
Ritorna sugli schermi con Civiltà perduta, biopic sulla vita dell’esploratore Percy Fawcett, forse l’ultimo visionario del XX secolo.
Gray basa la sua sceneggiatura sul romanzo di David Grann, The Lost City of Z , e si avvale della produzione e del supporto di Brad Pitt, attraverso la Plan B Entertainment. Lo stesso Pitt avrebbe dovuto impersonare il ruolo protagonista, passato successivamente a Benedict Cumberbatch, che, a sua volta, ha rinunciato.
E’ il giovane Charlie Hunnam a vestire i panni di Percy Fawcett. Lo abbiamo recentemente visto in quelli del King Arthur del pirotecnico Guy Ritchie.
La scelta di Hunnam si rivela forse meno felice di quella di Sienna Miller, nel ruolo della sposa dell’esploratore, o di Robert Pattinson nelle vesti dell’amico e compagno di viaggi di Fawcett, entrambi più forti ed efficaci nei rispettivi ruoli.
Hunnam si rivela solo discretamente espressivo, non sufficientemente empatico nel far risaltare i drammi intimi del suo personaggio, l’intima sofferenza e, al tempo stesso, l’esaltazione dell’esploratore ossessionato dalle sue ricerche.
Civiltà Perduta narra la vicenda del maggiore dell’esercito inglese Percy Fawcett. Nei primi anni del ‘900, viene incaricato dalla prestigiosa Royal Geographic Society di mappare i confini tra Bolivia e Brasile. Un’azione di arbitrato tra i due Stati, apparentemente super partes, ma tesa di fatto ad aggiudicare all’impero britannico il successivo controllo del traffico del caucciù, in perfetto stile imperialistico.
Fawcett inizia quella che sarà solo la prima delle sue eplorazioni in un territorio estremamente duro ed ostile.
Giunto alle sorgenti del Rio Verde, scopre casualmente alcuni reperti tali da fargli ritenere di aver trovato le tracce di una civiltà precolombiana particolarmente evoluta.
Torna in Inghilterra per l’agognato trionfo che la sua mediocre carriera anelava. Successivamente si ostina a ottenere altro credito, fino a riuscire a tornare più volte in Amazzonia per poi scomparire per sempre nel 1926 in circostanze misteriose, mai appurate, che causano la morte anche del primogenito Jack.
Gray tratteggia la figura dell’esploratore sotto diverse chiavi di lettura. La prima è quella del visionario che persegue ostinatamente, contro tutto e tutti, i propri obbiettivi. La seconda è quella dell’uomo il quale, una volta rientrato nel suo ambito familiare, non ritrova se stesso. Non riesce a riempire e superare il vuoto lasciato dal viaggio, quello dentro di sé, oltre il proprio limite, oltre lo spaesamento, oltre la caduta e la risalita. Un’ulteriore chiave di lettura è quella dell’uomo che si oppone ai canoni di una società dagli schemi rigidi come quella vittoriana, a favore di una libertà di pensiero e di espressione.
Gray confeziona il suo film seguendo amati schemi classici. Le riprese nell’Amazzonia hanno costretto la troupe a mille disagi e vive sofferenze. La macchina da presa, forse resta un po’ distaccata dai suoi personaggi. Civiltà Perduta emoziona, ma non lascia fino in fondo un segno nel cuore dello spettatore. Questo è forse un limite per quello che rimane, a tutto tondo, un film gradevole.
Fuori luogo i vari commenti che cercano un’impronta conradiana nella sceneggiatura o che accostano in tono minore il film di Gray ai capolavori di Herzog, tra Aguirre e Fitzcarraldo. Gray sta a se stesso, così come Fawcett rimane l’ultimo degli esploratori visionari del XX secolo.
Buone le performances degli attori comprimari. Non ultimo Tom Holland, nei panni del figlio Jack, che vedremo presto in quelli del nuovo Spiderman.
Più che degna di nota anche la fotografia di Darius Khandji, chiamato al difficile compito di rendere vibranti le luci e i colori della foresta amazzonica.
Dario Arpaio.
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