Il respiro del nuovo sole spazza via la cenere della notte. Io me ne sto in piedi, davanti alla finestra, quieto e pigro, fumo lento con la tazza del caffè in mano. Fra poco salirò in macchina alla volta di Arconate, a casa di Fabrizio Jelmini, fotografo, documentarista, reporter.
Mi soffermo a pensare come certi istanti si disperdano nelle stanze buie della memoria e come la vita sia, alla fin fine, uno sperpero di immagini in corsa. Domani, forse, non saremo più capaci di rintracciare i segni della loro comparsa. Una sveglia rotta ha più corpo e sostanza della nostra memoria fiaccata da un presente invadente.
E’ giorno fatto. Sto guidando lungo l’autostrada da Torino per Milano. Quante, quante volte l’ho percorsa, magari nell’ansia per gli incontri che mi davano lavoro. A volte sereno e soddisfatto. Altre me ne andavo con il magone per i segni contrari.
Oggi le montagne sono chiare e forti. Si possono distinguere canaloni e nevai. Un coro rassicurante.
Mi fermo nel solito autogrill. Un caffè e un croissant, come sempre a questo punto, lungo la stessa via. Mentre mi attardo a fumare nel parcheggio, chiamo Fabrizio e lo aggiorno sulla mia posizione. Più in là, un airone si alza in volo, solennemente. Le sue ali lo spingono verso nord. Quanta piccola meraviglia si sprigiona in questo giorno: sorprese in libertà. Quanto sono preziosi i frammenti di vita che poi magari sperperiamo nel mosaico dei giorni, senza quasi mai rendercene conto. Siamo davvero degli attori senza copione, pure distratti un po’.
Devo riprendere la strada. Non voglio tardare oltre. Fabrizio mi aspetta nel suo studio fotografico. Mi figuro nell’atto di entrare nell’antro di uno stregone, alchimista delle scale dei grigi, sapiente artefice di rasoiate di luce. Lo vedo affinare la sua interpretazione dei segni, quelli minimi, indifferenti al senso comune.
Oggi non siamo più capaci di guardare. Il nostro mondo è davvero saturo di immagini. Eppoi tutto va a finire nella memoria, e lì sta. In fondo ciò che vediamo è solo illusione, una proiezione relativizzata della realtà, magari uno scherzo degli dei per offuscare la verità. Quanti sono i fattori che giocano nella percezione visiva? Ma poi… a me importa poco… mi è sufficiente la consapevolezza che ci sono e vedo e penso e magari sogno, e… basta. E adesso sto vivendo dove vanno le ruote della mia auto e se mi portano altrove anche con la mente, ebbene ci gioco. E io ci sto al gioco e mi diverto!
E’ giunto il momento di lasciare l’autostrada. Bene! Manca poco alla meta. Parcheggio agevolmente nella piazzola antistante la casa studio di Fabrizio nel centro di Arconate. Stradine dal sapore antico. Suono il campanello di un grande portone in legno, di quelli che una volta vedevano entrare i carri. Fabrizio mi accoglie a braccia aperte. Percorriamo il vialetto nel mezzo del cortile ed ecco l’antro del mago aprirsi e chiudersi dietro le mie spalle, rivelandomi meraviglie non immaginate in così tanta bellezza di fattura. Il piano terra è dedicato allo studio fotografico ed è così ricco e perfetto in ogni dettaglio. Può anche essere rifugio notturno dopo chissà quale intenso lavoro di preparazione di un servizio o altro. In fondo all’unica grande sala dai muri rossi una scala a chiocciola conduce al piano superiore, all’abitazione di Fabrizio e di sua moglie Monica. Sento l’abbaio di un cane, un cagnone. E’ una femmina, Uma, un bracco italiano, la cocca di Monica. Tenera e dolcissima, un po’ timida: una cagnolona dagli occhi grandi. In fondo allo studio, da un lato, c’è un grande cuscinone tutto per lei. Come si conviene ad una regina.
Ovunque le foto appese, o semplicemente appoggiate ai muri rossi, catturano il mio sguardo. Mi rigiro. I miei occhi scivolano sulle foto che raccontano la storia professionale di Fabrizio, la sua vita. Sono estasiato davanti ai ritratti stampati su tela in grande formato. Sono autentiche esplorazioni nell’intimo delle storie di migranti, come in un backstage delle vite diverse. Grande ammirazione per i più piccoli quadretti, rigorosamente incorniciati con legni di recupero. Fabrizio mi illustra le sue originali creazioni con lecito orgoglio. Traspare in esse il ricordo vivo dell’artigianato del nonno falegname. La storia di generazioni antiche si svela man mano che discorro con lui, fotografo, documentarista, giornalista, esploratore della vita con rara sensibilità. Il padre di Fabrizio faceva il panettiere. Quel suo fare notturno di fuoco e farina ha lasciato in Fabrizio il senso dell’amore per il proprio lavoro e il rispetto per quello altrui. Una religione di vita. Mi riprometto prima o poi di portare a Fabrizio il mio pane, quello che via via mi sono incaponito a saper fare. Ecco, è proprio il ‘fare’ che domina i nostri discorsi, li pervade in ogni rima. Un fare antico, a tratti dilapidato nostro malgrado, smarrito in un mondo attuale che rincorre il profitto, a ogni costo, senza decoro, sacrificando la dignità creativa, più del necessario. Il fare antico era artigianato schietto racchiudeva uno sforzo fisico tale da esprimere il progetto nella sua verifica. Quanta maestria in quel fare. Un cammino che si riassumeva in un che di notturno verso una meta sconosciuta, rivelata magari solo all’alba.
Quanta luce traspare dalle parole di Fabrizio. Tanta quanta emana dai finestroni che sono una intera parete dello studio laboratorio. Mi racconta di qualcuno dei suoi servizi. Quello tra i ragazzi handicappati di Arconate. L’altro per le moto di un designer amico. O a cercar l’acqua con le donne e i bambini nei pressi di Sekota, nel nord dell’Etiopia. E ancora via attraverso cento Paesi in un girotondo intorno al mondo all’inseguimento dell’immagine perfetta, quella che non esiste, ma che, magicamente, spinge, pungola la ricerca. Quanta passione e quanto sacrificio.
Mentre discorriamo sento i passi della fatica fisica del mio scrivere. Non c’è differenza con il suo lavoro che inizia con la scelta dell’inquadratura, poi lo scatto e il culmine nella camera oscura, salvo giocare con il digitale sul computer. Si sciorinano formule matematiche di sviluppo e stampa. L’odore degli acidi colora il buio e solo la luce rivela il lavoro compiuto. Tutto come nell’attesa davanti alla pagina bianca che attende il tocco calligrafico di un sogno (o di un incubo). Consonanti che balbettano vocali. Così come la danza dei volumi, degli spazi che si incastrano in diagonali di lettura. L’arte, quale ne sia l’origine o il fine, è un fare che si inventa e realizza nella solitudine del proprio sudore.
Mentre discorriamo Fabrizio monta la Leica sul cavalletto. Mi fa sedere su di uno sgabello al centro dello studio. La luce dei finestroni mi colpisce a destra. Discorriamo mentre si susseguono gli scatti e i ritratti di me, forse un po’ sognanti o malinconici, così come la piegatura degli occhi lascia intravedere o supporre. Poi Fabrizio si siede alla scrivania. Scarica nel computer le foto e lavora alla selezione. L’occhio della Leica mi ha attraversato forse l’anima, ma è la mano di Fabrizio che ha condotto la danza delle ombre sul mio volto. Io ho raccontato della mia poesia e lui ha tradotto le mie parole nei ritratti. Come in una jam session non smettiamo neanche un istante di incrociare e articolare le nostre visioni di un giorno, di un attimo di vita, di un fiato, o magari i volti di coloro che abbiamo incontrato e conosciuto che emergono dal nostro passato e si riaccendono nelle nostre parole, sempre troppo esili o avare nel ricordo.
Salutiamo Monica impegnata per tutto il tempo al piano di sopra nel suo lavoro di preparazione degli atti di un convegno dove sarà relatrice. Andiamo a pranzo io e Fabrizio, da soli. Mentre ci accingiamo a uscire, Uma ci corre incontro. Si ferma sull’uscio. Ci guarda mentre attraversiamo il cortiletto. Il grande portone di legno si chiude dietro le nostre spalle. La intravedo voltarsi e rientrare scondinzolando al richiamo di Monica.
Percorriamo la strada provinciale che da Arconate porta a Castelletto di Cuggiono. La nostra meta è la Trattoria del Ponte dove ci aspetta qualche buon piatto di pesce. Continueremo la nostra chiacchierata intorno ai misteri della luce e le sue forme passeggiando lungo l’alzaia del Naviglio Grande.
Eccoci sull’antico canale che dal Ticino e arriva fino alla darsena di Porta Ticinese a Milano. Siamo nel Parco del Ticino e, camminando lungo l’alzaia, una via così ricca di storia, ho come la sensazione di scorgere le sagome di mille e mille ombre. Il richiamo sommesso di coloro che furono, che vissero e che fecero la storia: artigiani, maestranze, i lavoratori tutti che parteciparono alla costruzione del Duomo di Milano. Da questo canale transitavano i barconi trainati dai buoi, che trasportavano il materiale da costruzione e i marmi provenienti dal lago Maggiore. Attraversiamo il piccolo ponte ricostruito in muratura nel ‘600 (prima era in legno). Quì pare che nel 1200 sia stato linciato un podestà. I suoi concittadini furono aizzati dal clero che non accettava di pagare le tasse richieste. Corsi e ricorsi.
Ci concentriamo, Fabrizio e io, su di una caraffa di vino bianco, uno chardonnay degno accompagnamento a una buona frittura di pesce. E così via fino a gustare un buon whisky, rigorosamente single malt. Il proprietario della Trattoria del Ponte ne ha una ricca collezione. Ai muri sono appese una dozzina, forse più, di copertine della Domenica del Corriere, quelle magnificamente disegnate dal grande Walter Molino. Lui ha fermato la storia nelle sue immagini.
Sento prepotentemente la commistione della piccola con la grande storia. Il nostro esistere lascia una traccia, anche nostro malgrado, e, perché no, quest’acqua che scorre nel canale forse ne racchiude la memoria viva. Come un sussurro è come se ci ammonisse placidamente: “Vivila intensamente la tua piccola storia… Hai solo questa… Io ritorno sempre in quella grande… Tu fuggirai via… ma, non temere, io porterò di te almeno un fiato… Non dimenticare… Tu sei tutti coloro che sono stati prima di te e sarai in tutti quelli che verranno dopo… Anche i ciottoli nel mio greto lo sanno…”.
Dopo pranzo camminiamo lungo l’alzaia in silenzio. Fabrizio si ferma e scatta qualche foto con la sua Leica. Io pure raccolgo qualche istantanea di lui all’opera. E’ un autentico testimone del suo tempo, un archivista di mille volti, di mille e mille storie. Poi mi racconta di quando ragazzino veniva a giocare quì con i suoi compagni. Nuotavano anche. E c’erano le feste dell’estate.
Passiamo davanti al palazzo Clerici. Una costruzione imponente che ci osserva di là della sponda dalle sue 365 finestre e 12 balconate. Tante quanti i giorni e i mesi dell’anno ne avevano voluto i Clerici, prosàpie di banchieri del 1700, ricchi e desiderosi di competere con la nobiltà milanese del tempo. Ora la grande scalinata barocca che scende fino al canale è muta. Non accoglie più gli invitati alle feste dei padroni di casa, che qui giungevano per la via d’acqua.
Ermanno Olmi, poco avanti, ha girato alcune scene del suo Albero degli Zoccoli, in quel suo sublime canto della dignità della miseria contadina.
Sono quasi ubriaco di storie e di volti. Questo giorno mi sta avvolgendo in una vertigine magica. Ho la sensazione di essere un mediocre cronista chiamato a raccontare di storie e altre storie. Fabrizio mi racconta dei suoi, di un tempo ancora giovane. Tutti loro segnavano forte una matrice di un fare. Lui, ora, lo sublima nelle sue fotografie.
Mi racconta anche di un bracconiere che pescava di frodo per dar da mangiare alla sua famiglia. Conosceva bene i posti dove lanciare la lenza. Si faceva anche scrupolo di alimentarle le ‘sue’ acque. Dove i pesci non si riproducevano, lì rimetteva in acqua ciò che aveva appena pescato e forse non serviva all’immediato bisogno. Sarebbe poi tornato a raccogliere a colpo sicuro nuovo cibo. Un fare armonioso e attento agli equilibri della natura, non scabro o dissennato. La vita continua solo con nuova vita.
Oggi l’alzaia del Naviglio Grande è anche una pista ciclabile frequentata da quei ciclisti che si vestono da arlecchini e che nessun rispetto nutrono per chi va a piedi.
Camminiamo lenti. Le parole non servono poi così tanto. Il silenzio ci rende complici nel nostro fare, partecipi l’un l’altro di un giorno di piccole meraviglie. Rientriamo ad Arconate. Saluto Fabrizio e riprendo l’autostrada per Torino. Mi fermo al solito autogrill per una sigaretta. Ascolto Johnny Cash. Un airone si alza in volo, solennemente. Forse è lo stesso di stamattina.
Dario Arpaio
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