Compassione, commozione viscerale, rabbia, indignazione, sono gli ingredienti di Io, Daniel Blake, l’ultimo film di Ken Loach, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, dove il regista ha sempre ottenuto calorose accoglienze. Analogo riconoscimento ebbe nel 2006 il suo struggente Il vento che accarezza l’erba. Così come pure Venezia e Berlino hanno premiato Loach con un Leone d’Oro e un Orso d’Oro alla carriera. Lui, ormai ottantenne, ha voluto tornare dietro la macchina da presa ancora una volta e con la grinta di sempre, affiancato dal suo fidato sceneggiatore Paul Laverty, racconta la storia di un carpentiere sessantenne e delle sue amare peripezie per sopravvivere cercando di mantenere la schiena dritta.
In seguito a un infarto, Daniel non può più lavorare ed è costretto ad affidarsi al sussidio statale. Si ritrova fagocitato in un percorso che si rivela aberrante e grottesco, tra scartoffie e incongruenze tragicomiche. Durante una delle tante visite al Centro per l’Impiego incontra Katie, una giovane madre che, sola e con due figli, si trova lei pure ad affrontare la melma della burocrazia per ottenere ciò che, di fatto, è un diritto. Tra Daniel, Katie e i due piccoli si instaura un’amicizia forte, tale da alleggerire le pene quotidiane. Ken ci offre una narrazione piana intorno ai contenuti del disagio e della solidarietà e la rabbia cresce nel vedere come e quanto debbano subire i suoi personaggi nel tentativo, spesso vano, di non farsi calpestare la propria dignità. Altrettanto Loach sussurra (forse) un alito di speranza che gli viene dalla sua fede socialista: gli uomini sanno aiutarsi, sostenersi, solidali nelle avversità. Non tutti sono ottusi aziendalisti, tronfi dietro il paravento di regole e divieti astrusi. C’è pure chi sa vedere oltre la propria piccola misura.
Nell’animo del vecchio regista rimane forse ancora vivo un sussulto di quella che un tempo era la coscienza di classe, la consapevolezza di essere ultimi e la necessità di stringersi vicini intorno al fuoco per riscaldare la propria esistenza e, soprattutto, trovare la forza per reagire fattivamente. O forse è solo il retaggio della storia di un grande vecchio del Novecento, Ken il Rosso. La sua macchina da presa è ancora viva e capace di graffiare il nostro sguardo, accarezzando a tratti l’anima, muovendo sapientemente le corde della tenerezza. Io, Daniel Blake si chiude sulle parole vibranti che Loach mette in bocca a Katie nel suo fermo incitamento ai Governi – quasi un J’Accuse – di non dimenticare che al centro del loro operare ci devono essere, innanzi tutto, i valori e la dignità di ogni essere umano.
Dario Arpaio
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