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p2Paterson è una cittadina del New Jersey. Conta circa 150.000 abitanti. Una città come tante, ma con alcune peculiarità. Ci hanno vissuto William Carlos William, Allen Ginsberg, Wallace Stevens, Frank O’Hara. Tutti poeti eccelsi. Hanno scritto i loro versi pur impegnandosi in altri lavori per sbarcare il lunario, perché, è risaputo, di poesia non si vive.

E Jarmusch arriva idealmente a Paterson direttamente dalla lontana Tangeri dove solo gli amanti sopravvivono, città dove, peraltro lui stesso amerebbe trasferirsi in una vecchiaia colorata di poesia, e Paterson diviene anche il nome del protagonista del suo nuovo film, che nasce e vive nella città della quale porta il nome. Così ha inizio la storia che ha incantato i festival di Cannes, New York, Toronto.

Paterson è l’autista del bus della linea 23. Tutte le mattine si reca al lavoro in un tempo cadenzato lento e sempre uguale. Nella sportina della colazione c’è un sandwich, un frutto e anche una foto di Laura, sua moglie, e una di Dante Alighieri, quest’ultima contornata da un bocciolo di rosa rossa. Paterson vive tutta la sua vita nei versi che scrive sul taccuino dal quale non si separa mai. Ogni piccolo accadimento della sua giornata diventa poesia riposta nel quadernetto. C’è spazio anche per poetar d’amore sui fiammiferi di casa, che diventano quasi un contrappunto ai tre di Prévert, ma con la genuinità propria di Paterson, con la sua poesia delicata e originale, figlia della migliore impronta di William Carlos William.

La vita di Paterson scorre leggera e serena alla guida del suo bus della linea 23, lungo le strade di una città dove spesso si incrocia lo sguardo con coppie di gemelli e dove nulla sembra mutare. Eppure ci aveva vissuto anche il nostro eroico Gaetano Bresci, prima di decidere che un re andava punito per la sanguinosa repressione dei moti di un popolo affamato. Jarmusch ce lo fa ricordare attraverso le chiacchiere di una coppia di ragazzi, passeggeri del bus della linea numero 23, che altri non sono che i due piccoli innamorati di Moonrise Kingdom, ancora insieme sullo schermo dopo le magie sottili di Wes Anderson.

Il film si snocciola nell’arco di una settimana dove apparentemene non succede altro che piccola deliziosa vita. E’ Laura, la moglie di Paterson, a subissarlo di idee bizzarre che colorano di bianco e nero tutta la casa, dove pigramente, ma solo apparentemente inerte, Marvin, il bulldog, li osserva sornione. Magari è proprio lui ad avere le chiavi di una svolta nel futuro.

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Paterson, così come Jarmusch, rifiuta il cellulare o il computer. Sono sufficienti una penna e un taccuino per vivere la vita appieno, per non smarrire i più minuti accordi della danza dei giorni, sempre uguale e sempre nuova. A che vale la bramosia del futuro, se non ha ancora un colore, mentre si smarrisce il presente ricco di sfumature minute che altro non chiedono se non essere svelate ed essere riposte con cura nello scrigno della memoria.

Giorno dopo giorno Laura forse sfornerà altri cupcakes e imparerà a suonare la chitarra. Certamente Paterson continuerà le sue alchemiche scritture. Il cane Marvin si farà condurre nel passeggio serale, borbottando fino al bar del saggio Doc, dove la stessa umanità colorita si ritroverà negli stessi piccoli e consumati amorevoli litigi.

Jarmusch firma un grande film fatto della stessa sostanza della poesia, riuscendo, pur con grande dispendio di energie, a mantenersi integro nel suo essere caparbiamente magnificamente indie.

Adam Driver è Paterson e rimarca le già notate grandi qualità interpretative. Lo rivedremo a breve in Silence, l’attesissimo nuovo film di Scorsese. La bella e brava Golfshifteh Farahani è la deliziosamente vulcanica Laura. E il bulldog Marvin, in realtà, è una femmina.

Dario Arpaio

 

 

 

 

 

 

3pL’attesa per il nuovo fim di Tim Burton è stata grande. I fan si aspettavano una nuova sposa cadavere, oppure un altro Edward-mani-di-forbice, e perché no, magari un big fish, o un’avventura nella fabbrica di cioccolato. Ed ecco il nostro che si è dedicato anima e corpo al romanzo del giovane Ransom Riggs.

Riggs, dopo aver collezionato una serie di vecchie fotografie, raccolte nei mercatini di cianfrusaglie, ha successivamente ideato una vicenda a mezzo tra il fantasy e l’horror, La casa per bambini speciali di miss Peregrine, pubblicato per la prima volta nel 2011 e ripubblicato nel 2016 in occasione dell’uscita del film dal titolo miss Peregrine e la casa dei bambini speciali.

Buona fortuna editoriale stanno ottenendo anche i due sequel, Hollow City e l’ultimo della trilogia, La biblioteca delle anime.

Poi è arrivato lui. Per il suo film, Tim Burton si è avvalso della sceneggiatura di Jane Goldman, appassionata di paranormale, autrice, tra gli altri, dello script di X-Men, L’inizio e di Kingsmen, Secret Service.

I presupposti per alimentare un’attesa trepidante ci sono stati davvero tutti per una storia di freaks coinvolti in loop temporali contro i cattivi, i Vacui, pronti a divorare gli occhi delle loro vittime.

Dopo la misteriosa morte dell’amato nonno, Jacob si reca nel Galles per inseguire le tracce del passato del vecchio, che tanto ha influito sulla sua infanzia con i racconti di bambini dotati di strani poteri.

Il ragazzo parte alla ricerca della casa misteriosa e della direttrice altrettanto fantastica dei quali ha tanto sentito parlare dal nonno. Non sa ancora che si troverà coinvolto nell’eterna lotta del bene contro il male, qui incarnato da orrendi mostri divoratori di occhi all’inseguimento della vita eterna.

La direttrice, miss Peregrine, capace di trasformarsi in un falco pellegrino, lo accoglie a braccia aperte e via via gli spiega le peculiarità della misteriosa casa, abitata da ancor più incredibili bambini superdotati e dei pericoli dai quali deve proteggerli.

Jacob viene a contatto con il bambino invisibile, la bimbetta dalla forza erculea, quello che sputa sciami di api, i gemelli mascherati e con gli altri freaks, tutti dotati di superpoteri, che sembrano un’emanazione dalle foto di Diane Arbus .

Colei che più affascina Jacob è senza dubbio Emma, più leggera dell’aria, costretta a calzare pesanti scarpe di piombo per non volar via, che si mostrerà capace di padroneggiare il suo elemento con il fiato.

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miss Peregrine protegge amorevolemente, benchè con estrema fermezza, i suoi ragazzi speciali. Soprattutto dal villain di turno, il terribile e temible Barron che con i suoi Vacui, meglio chiamarli Hollowgast, è alla caccia di tutti i bambini ‘peculiar’ per privarli degli occhi e acquisire il loro potere.

Il magico mezzo per la salvezza dei ragazzi è dato da un continuo loop temporale che consente a miss Peregrine di tenere la casa nascosta, al riparo dai pericoli. Tant’è il temibile Barron non tarderà a contrastare l’incantesimo e l’inevitabile battaglia avrà inizio.

Burton regala ai fan alcuni dei tocchi magici del suo campionario di grande regista visionario. Usa con maestria e discrezione lo stop-motion, ma solo a tratti (tecnica che necessita di un lungo e costoso tempo di produzione). Adotta a piene mani tutto ciò che la computer grafica è in grado di garantire allo spettacolo e forse eccede nel suo utilizzo, sebbene alcune sequenze siano pregevoli (l’emersione della nave sommersa, la grande battaglia del luna park).

Ma resta sempre inequivocabilmente lui, Tim Burton, ad avere l’ultima parola, anche se a fronte di una sceneggiatura a tratti un po’ raffazzonata, che non sempre rende merito ai magnifici bambini speciali di Riggs.

Eva Green è miss Peregrine, dal fascino vagamente dark e conturbante. Come lei poche attrici sono capaci di giocare al meglio con il mistero. Quello lo tiene così ben celato dietro i suoi magici occhi.

Asa Butterfield è Jacob, il protagonista. Arriva direttamente dall’Hugo Cabret di Scorsese. E’ cresciuto, ma risulta un po’ monocorde e scialbo nella sua interpretazione.

Di ben diverso spessore è Ella Purnell nei panni di Emma, la ragazzina dominatrice dell’aria, che si avvia a una carriera di successo. Ne sentiremo parlare spesso.

Ben poco si può dire del villain Barron, interpretato dall’onnipresente ghigno di Samuel L. Jackson. E’ sempre lui, inconfondibile, a dare corpo ai suoi personaggi, sebbene le prove migliori le abbia offerte con le regie di Quentin Tarantino.

Quasi un cameo, un’incolore presenza della grandissima Judi Dench. Molto meglio risulta Terence Stamp nei panni di un nonno iperprotettivo e visionario.

Ma… chi ha riconosciuto Rupert Everett? Chi l’ha visto?

In conclusione, Tim Burton rimane l’indiscusso maestro di un certo cinema visionario, ma c’è da aspettarsi quel tocco magico in più che lo ha sempre contraddistinto, sempre che non si lasci traviare dalle produzioni mainstream. Facci sognare ancora Tim.

Dario Arpaio

 

 

 

 

 

 

 

 

1Free Fire del regista inglese Ben Wheatley chiude il TFF 34 dopo aver mietuto un bel successo di pubblico, e non solo, ai festival di Toronto e Londra.

Ben Wheatley inizia la sua carriera con alcuni corti per passare poi alla regia di serie televisive e, infine, al grande schermo. Possiamo ricordare il suo recente High Rise.

Quasi sempre si è avvalso della collaborazione di Amy Jump per le sceneggiature, alla stesura delle quali partecipa lui stesso. Insieme si occupano anche del montaggio, certamente uno dei punti di forza dell’adrenalinico Free Fire. Tra i produttori esecutivi spicca, inoltre, la presenza di Martin Scorsese.

Il divertentissimo film racconta di come un gruppo di terroristi irlandese si ritrovi a Boston, alla fine deli anni ’70, per acquistare armi. L’appuntamento fissato dai trafficanti è di notte, in una fatiscente fabbrica abbandonata.

Si respira tensione per l’affare e c’è grande diffidenza stemperata goffamente da qualche tentativo di rottura del ghiaccio. Ma i trafficanti si sono presentati senza gli M16. Propongono gli AR70, sono pur sempre fucili d’assalto, ma

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Sembra quasi una barzelletta: ci sono un sudafricano, qualche irlandese, una donna, un americano, un nero e dei balordi. In tutto una dozzina di fuori di testa. Basterà una scintilla, un imprevisto, e si scatenerà un putiferio di pistole e colpi di scena, conditi da un fuoco di artificio di battute travolgenti.

2Il film è davvero spassoso e può contare sulla partecipazione di Brie Larson, Cillian Murphy, Jack Reynor, Sharlto Copley, Armie Hammer. Tutti perfettamente a loro agio nei rispettivi ruoli.

 

D.A.

 

 

lcop1La Mécanique de l’Ombre di Thomas Kruithof è stato presentato in concorso al TFF 34.

Alla sua opera prima il giovane regista dirige un più che discreto thriller sulla sceneggiatura di Yann Gozlan e si avvale di una forte interpretazione di Francois Cluzet.

Il bravo attore francese abbandona la commedia di successo per calarsi in una spy-story dai colori cupi, lividi, a tratti paranoici, e si cimenta in una interpretazione tutta in levare, perfetta per il suo personaggio Duval.

La Mécanique de l’Ombre, racconta di un uomo di mezza età, un alcolista in cerca di riabilitazione, che perde il lavoro, nonostante una metodicità certosina.

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Ed è proprio questa caratteristica che lo fa contattare da un ambiguo datore di lavoro. Questi gli offre un misterioso lavoro di trascrizione su carta di colloqui telefonici registrati su nastro. Un non meglio identificato impiego di sorveglianza si rivela non essere altro che un’azione di intercettazione spionistica a vantaggio della politica sporca.

Duval reagisce quando il livello di malaffare supera ogni limite e si trova coinvolto con i servizi segreti in azioni di doppio e triplo gioco. Insomma l’uomo comune cade in una trappola troppo grande per poterla reggere.

Tutti temi cari al genio di Hitchcock, ripresi negli ’70 da registi come Pakula o Pollack. Ma Kruithof dimostra di inseguire una propria cifra stilistica e di non limitarsi a seguire le tracce di illustri predecessori.

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Il film scorre in un tormentato crescendo di tensione fino a un imprevisto finale nel quale Duval tenterà il tutto per tutto per riappropriarsi della propria dignità.

Cluzet è affiancato anche dalla sempre bravissima Alba Rohrwacher, che proprio al Torino Film Ferstival è stata doverosamente insignita con il Premio Cabiria 2016, destinato ai migliori e talentuosi attori.

D.A.

f3Free State of Jones di Gary Ross con Matthew McConaughey esordisce con successo al TFF 34.

Il regista, Gary Ross, ha lavorato al progetto di questo film per oltre 10 anni, da grande appassionato qual è di storia americana, avvalendosi nelle sue ricerche del supporto di storici accreditati.

Ogni possibile minuto documento, che potesse dar luce alla figura del contadino Newton ‘Newt’ Knight e alla sua epica ribellione, è stato raccolto ed esaminato con cura.

Ross ha dovuto interrompere la ricerca delle fonti solo nel 2012, in occasione del suo acclamato Hunger Games, per poi tornare a dedicarsi anima e corpo a Newt e alle sue gesta.

La vicenda del Libero Stato della Contea di Jones, nel Mississippi, risale ai fatti del 1863, in piena Guerra Civile. Newton Knight è un contadino arruolatosi con i Confederati, in qualità di infermiere, pur rimanendo fortemente contrario alle motivazioni della guerra dell’uomo ricco combattuta dai poveri.

Alla morte in battaglia del nipote, fugge con il corpo del ragazzo e torna a casa. Da quel momento diventa un rinnegato. Dopo uno scontro con i confederati per impedir loro di razziare alcune fattorie della contea, diviene un fuggitivo. Si nasconde nel dedalo delle paludi, tra il Mississippi e la Lousiana, aiutato da un gruppo di neri fuggiaschi, ai quali si affiancano nel tempo altri contadini in fuga dalla guerra.

Le presunte necessità di un’economia di mercato, basata sul lavoro a basso costo dei neri, hanno motivato i presupposti della guerra, voluta perloppiù dai grandi proprietari terrieri, quelli che sputano sui principi costituzionali di eguaglianza e di parità di diritti di ogni essere umano.

Newton Knight si ribella al Sud e il suo carisma e le sue gesta lo pongono a capo di un esercito di oltre 500 uomini. Fonda lo Stato Libero di Jones.

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L’Unione stessa, alla quale Knight offre e chiede aiuto, lo supporterà solo marginalmente e saranno solo loro, i contadini delle contee di Jones e di Piney Woods, a fronteggiare i Confederati, grazie anche alla situazione geografica militarmente vantaggiosa. Nelle paludi, dove hanno inizialmente trovato riparo, difficilmente possono essere contrastati.

La guerra civile ha finalmente termine. Lincoln vince. Lo stato libero di Jones vince. I neri ottengono gli stessi diritti dei bianchi, ma, di fatto, solo a parole. Nasce il Ku Klux Klan e le razzie riaprono uno scenario di terrore.

Newt, intanto, sposa una donna di colore fuggita dalla schiavitù. Non fa distinzione di razza, stessi diritti e doveri per chiunque. La lotta continua, ma il razzismo ha le sue radici profonde nell’ignoranza. E’ solo arrogante sottocultura, tutt’oggi più che manifesta.

Newton Knight durante tutta la sua vita combatte per la libertà di ogni uomo, quale che sia il colore della pelle, ma nemmeno un suo pronipote avrà vita facile. 85 anni dopo la fine della guerra di secessione, Davis Knight si farà condannare dallo stato del Mississippi per non voler accettare il forzato annullamento del suo matrimonio con una donna bianca in contraddizione con le leggi razziali. Per lo Stato lui è solo in apparenza bianco, ha 1/8 di sangue nero.

Free State of Jones è un film assai ben diretto da Gary Ross. Narra i fatti senza scadere nell’apologia o nel facile sentimentalismo. Grande cura è stata data ai minimi dettagli di scena, ai costumi, a ogni accento.

Mirabili le sequenze iniziali della battaglia tra nordisti e sudisti.

Matthew McConaughey, da par suo, si cala anima e corpo nel personaggio di Newt e ci offre la figura del grande ribelle senza eccessi, con misurata recitazione.

D.A.