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2dAnche questa 34° edizione del TFF propone un cartellone ricco di titoli di estremo interesse tra i quali spicca Sully, diretto da Clint Eastwood, con Tom Hanks nei panni del pilota che compì il ‘miracolo sull’Hudson’.

Il 15 gennaio 2009 il volo US Airways 1549 impatta uno stormo di oche poco dopo il decollo dal La Guardia di New York. Il cosiddetto bird strike si rivela devastante. Entrambe i motori vanno in totale avaria.

Il pilota comandante è Chesley ‘Sully’ Sullenberger che vanta al suo attivo 40 anni di volo. In una manciata di secondi decide di ammarare sullo Hudson non avendo alcuna spinta sufficiente per rientrare al La Guardia o, in alternativa, all’aeroporto di Teterboro.

Pochi istanti concitati e poi l’annuncio dato ai 155 passeggeri: ‘Prepararsi all’impatto!’. Gli occhi di tutti vedono avvicinarsi con terrore l’acqua del fiume. Sully compie una manovra a dir poco perfetta, strepitosa.

Il grande Airbus 320 galleggia al centro del fiume. Un’immagine surreale. I passeggeri si accalcano sulle ali e sulle rampe di emergenza. L’aereo li protegge dall’acqua gelida in attesa dei soccorsi della Guardia Costiera che interviene in un baleno.

Tutti salvi. I media si scatenano inneggiando al pilota del miracolo sull’Hudson.

Viene avviata un’inchiesta. Il National Transportation Safety Board (NTSB) è obbligato a verificare nel dettaglio i fatti. Il pilota davvero non aveva alternative? Possibile che non potesse raggiungere i vicini scali senza mettere a repentaglio l’aereo e, soprattutto, la vita dei passeggeri e del suo equipaggio?

La macchina da presa svela l’animo di Sully. La tensione è alle stelle. Le poche ore di sonno sono tormentate da incubi. Sully rivive i drammatici istanti del volo troncato. Ma è certo di aver fatto il suo dovere.

Sa di aver compiuto una manovra perfetta, spericolata ma incredibilmente controllata. Chi è del mestiere lo sa e l’applaude. Ma la NTSB nutre il dubbio che la sua possa essere stata imperizia. Il possibile verdetto sarebbe spietato.

Le udienze e le simulazioni si susseguono fino a che il pilota non si erge a difesa della propria essenza di uomo, smontando ogni teoria, tappando la bocca agli scettici, all’assicurazione e a chiunque altro.

Eastwood sceglie Sully per aggiungere un’altra figura di eroe-per-caso al suo album di personaggi, tutti uomini comuni chiamati a fare ciò che va fatto, se necessario, contro tutto e tutti. Senza osanna, nella virile accettazione dell’onore esaltato nella certezza di aver compiuto null’altro se non il proprio dovere.

Niente di più. Niente di meno.

Tom Hanks offre l’ennesima interpretazione forte, di classe. Lui pure colleziona eroi-per-caso, come, tra gli altri, il tenente Miller in Salvate il Soldato Ryan. Uomini tutti di un pezzo come ad esempio Eastwood in Grantorino, o ancora Hanks ne Il Ponte delle Spie.

I due grandi professionisti saranno pure distanti politicamente. Hanks convinto democratico, Eastwood acceso repubblicano. Ma entrambi credono negli stessi ideali del fare, dell’onore, del dovere.

Il film Sully segue con buon ritmo la vicenda del pilota del miracolo, grazie all’ottima sceneggiatura di Todd Komarnicki calibrata sull’autobiografia del comandante Sullenberger, Highest Duty. Lui stesso ha offerto il proprio prezioso contributo diretto alla messa in scena.

Sully sarà distribuito sugli schermi a partire dal 1° dicembre.

Dario Arpaio.

 

 

 

1Assistendo a Saint Amour, la nuova commedia firmata da Benoit Delépine e Gustave Kervern, mi è tornato in mente Daniel Pennac quando attraverso i personaggi della saga di Belleville, monsieur Malaussène in testa, scriveva: ‘Se davvero volete sognare, svegliatevi!’. Le bella coppia dei due acclamati cineasti aveva già estasiato con Louise Michel (2008) e con Mammuth (2010). Graffiante favola anarchica il primo; malinconico e dolce-amaro on the road il secondo.

Con la stessa mano ferma i due si sono rimessi dietro la macchina da presa preferita e con i loro personaggi sono andati a percorrere le strade dei migliori vini di Francia alla ricerca dell’essenza della vita in un ‘wine testing’ filosofico e un po’ alticcio.

I protagonisti sono Jean (Gérard Depardieu), Bruno (Benoit Poelvoorde), rispettivamente padre e figlio, che si ritrovano sul taxi di ‘Mic’ Mike (Vincent Lacoste) per andare a comporre sulla loro mappa un mosaico di etichette di cru deliziosi, raccolte in giro per la Francia. Nella fattispecie il Saint Amour del titolo è un rosso della Saone-et-Loire. Un vino fine, tenero e armonioso che ben poco avrebbe a che fare con l’aspetto dei due paysans, allevatori di bestiame. Con il toro Nabuccodonosor, rimasto in paziente attesa dei suoi proprietari al gran Salone dell’Agricoltura di Parigi, sperano di vincere l’ambito primo premio.

Il rapporto padre e figlio non è idilliaco, ma, complice il viaggio, si scopriranno vicini come forse non avevano mai avuto modo di essere. Bruno, poi, vive un forte complesso di inferiorità nei confronti delle donne. Lui è un contadino ed è convinto che nessuno potrebbe amare un rozzo uomo che vive a contatto con la terra e le sue bestie. La vita della grande città è per lui un miraggio. Ma i due registi oppongono in contraltare una sorta di carrellata di ritratti di giovani moderni perduti nelle pieghe del consumismo, quello che distorce e allontana dalla vita vera con le sua false promesse di appagamento futile ed effimero.

I chilometri si accumulano sul tassametro e la ricerca della felicità sembra non avere esiti positivi proprio quando i tre personaggi si imbattono in Venus (Céline Sallette). Con lei inizieranno un altro percorso, che li porterà alla scoperta del segreto della vita. E il toro Nabuccodonosor magari li aiuterà a riflettere sul ‘futuro che ha senso soltanto come speranza presente’ (da J.L.Borges).cop2-2

Depardieu e Poelvoorde sono a loro agio nella loro corpulenza e rendono forti e teneramente spassosi e credibili i loro personaggi. Che dire poi del delizioso cameo di Andrea Ferreol, così raccolta in una dolcissima sequenza con Depardieu.

Saint Amour graffia meno delle opere precedenti di Délepine e Kervern, ma non nega, anzi rilancia la poetica dei due cineasti in una riflessione forse più matura, amabilmente innaffiata di buon vino francese che, fortunatamente, la Movies Inspired ha voluto distribuire per noi.

Dario Arpaio

Nel Ritorno a l’Avana di Laurent Cantet, accade tutto dal tramonto all’alba in una terrazza di fronte al mare. E’ lì che cinque amici si danno appuntamento per festeggiare il ritorno di uno di loro dopo una fuga durata 16 anni. E ricordano la loro giovinezza, i sogni, i giochi, ma soprattutto la speranza in un sistema nuovo che sembrava prossimo a realizzarsi. Era come se tutto il mondo stesse a guardarli. Non davano peso alle fatiche del lavoro nei campi di canna da zucchero o di tabacco che il regime imponeva agli studenti per farne degli ‘uomini nuovi’. Si divertivano, nonostante la povertà. Ma le ambizioni artistiche e i sogni, quelli si sono poi sperperati nella piccola storia incapace di contrastare gli eventi e lo scorrere inesorabile del tempo. Si incontrano su quella terrazza dopo quarantanni, si abbracciano, litigano, si rinfacciano errori o presunte vigliaccherie. Non sono eroi. Si rovesciano addosso l’amarezza di una realtà ben lontana e diversa da quella tanto attesa. Il pittore non dipinge più altro se non croste per sopravvivere. Chi scriveva romanzi, ha perso l’estro e non scrive più. Chi è medico, se la cava a stento. Anche l’ingegnere si adatta a lavorare come operaio. L’unico ad aver fatto carriera, ha accettato compromessi di dubbia moralità. Si commuovono nell’ascoltare California Dreamin’ dei Mama’s n Papas, che anni addietro era proibito. Ancora si schierano vivacemente tra Beatles e Rolling Stone. Le ore scivolano via nel buio della notte fino a lasciare lo spazio all’alba. Loro si sono ritrovati, i livori sopiti sono stati fugati. La vita passata si è sbriciolata nella malinconia di un giorno qualunque.

laurent_cantet-ritorno_avanaIl Ritorno a l’Avana di Laurent Cantet, uno dei maestri del cinema francese contemporaneo, è stato scritto a quattro mani con Leonardo Padura Fuentes, romanziere cubano assai noto in patria, il cui apporto è stato fondamentale per la riuscita dell’opera. La collaborazione tra i due ha consentito a Cantet di rendere vera una visione di Cuba, da lui molto amata pur con tutte le sue contraddizioni. Ha optato per una regia basata su dialoghi serrati esaltati da primi e primissimi piani. Sono gli occhi, le rughe e le voci degli attori a dare corpo alla malinconica e rassegnata disillusione dei personaggi. Eccelle in crescendo il cammino registico di Cantet, già vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2008 con il suo La Classe – Entre les Murs. Il suo occhio insegue, va in cerca della realtà di personaggi senza clamore, li rende vivi, attuali. Il Ritorno a L’Avana è stato premiato a Venezia 71 come miglior film nella sezione ‘Giornate degli Autori’. Davvero felice la sua scelta di concentrare con un azzardo la vicenda in un arco temporale ristretto, esaltandone la forma nel dialogo, come a voler raccontare la vita in quanto tale, senza orpelli, attraverso la macchina da presa fissa sui personaggi con l’oceano in contraltare lontano, quasi in ascolto delle storie narrate su di una terrazza agita come un palcoscenico in un teatro sovrastante la città. Quella che vorrebbe anche essere l’Itaca del titolo originale, un luogo nel suo passato, un mito a cui anelare, quello della giovinezza perduta, del sogno infranto in un mondo nuovo che non s’è avverato.

ermanno-olmi-torneranno-i-prati-222-201416Quei due colpi di rivoltella sparati a Sarajevo il 28 giugno 1914 furono il prologo a ciò che seguì per 10 milioni di morti tra i soldati e 7 milioni di tra i civili, questi ultimi perloppiù sfiniti dalla malnutrizione. E’ trascorso un secolo da quell’evento e, così come vuole il titolo dell’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, il tempo scolora i fatti e l’erba torna a ricoprire la terra nel suo eterno ciclo di vita. Torneranno i Prati racconta di una notte in un avanposto qualsiasi sull’altopiano di Asiago, a quota 1800 metri, e nulla altro rimarrà di quel gelido inverno del ’17 se non il silenzio. Forse in qualche angolo della memoria ci saranno ancora le stesse immagini di miseri resti di suppellettili, qualche gamella, un tubo di stufa, un coccio, una foto di casa. Ma dei fanti, della loro paura non ci sarà altro che qualche flebile eco. Olmi ci dice che quegli uomini vanno ricordati per il sacrificio, eroico loro malgrado. Assurdo, spesso inutile, ancora di più perché proprio loro erano là dove non sapevano e non volevano, richiamati dagli ordini di alti ufficiali con ai piedi stivali che non avevano mai visto il fango e giocavano alla guerra sulle carte della retorica e nulla conoscevano del dolore della carne. Nella trincea del film rivive lo spunto di pagine non scritte a tavolino dagli storici, ma quelle veraci dei diari e delle lettere alle quali Olmi si è affidato per costruire la sua sceneggiatura, asciutta, essenziale, quasi metafisica, dove i corpi dei soldati si muovono a rilento nel gelo del loro essere sospesi tra la neve e la morte all’improvviso. Il colore della fotografia, curata dal figlio di Olmi, Fabio, trasfigura ogni istante in un bianconero drammatico di rara bellezza. La notte di luna illumina le parole di Quant’è bella a muntagna stanotte e la canzone di quel soldato unisce anche il cuore del nemico nell’applauso mentre una volpe, ignara, non cambia il suo percorso notturno e un larice pare quasi assorto in un silenzio irreale che attende la tragedia. Il cannone tace, almeno per un istante dilatato. Poi verrà la disfatta di Caporetto, ma i soldati del film non lo sanno ancora. Ricevono ordini astrusi ai quali il loro stesso capitano si ribella. Si bestemmia quel Dio che pare avere voltato lo sguardo in una direzione lontana dal fronte di guerra. Olmi si pone con fermezza contro la retorica bellica e la trincea del suo film è emblematica, la stessa ovunque in quel conflitto che significò l’autentico spartiacque nella storia del secolo scorso.Torneranno i prati anche su quell’angolo di non vita, di uno spazio di miseria umana. olmifilm3A Olmi non necessita nemmeno citare i 340.000 processi intentati ai militari per diserzione, per autolesionismo o anche solo sbandamento, indisciplina, né accennare alle atroci esecuzioni sommarie, come quella ordinata dal generale Graziani nei confronti di un vecchio soldato che, al suo passaggio, non si era levato di bocca la pipa. A Olmi basta inquadrare i volti dei soldati con gli sguardi sospesi nel gelo di una notte qualunque nell’attesa vuota dell’irreparabile. Torneranno i prati su quella terra, come ogni anno a primavera, tanto ‘la guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai’, come dice un pastore a Olmi, il quale intorno a quella saggezza e ai ricordi di suo padre, egli stesso soldato sull’Altopiano di Asiago, racconta in poesia rarefatta quello che rimarrà uno dei suoi film migliori in assoluto, una regia raffinata di rara purezza.

Il cinema nel passato ha rivolto grande attenzione alla Grande Guerra. Già nel 1930 Georg Wilhelm Pabst girava Westfront 1918, che si chiudeva sull’immagine di un Cristo in croce, inerme, semidistrutto. Per non dimenticare All’Ovest niente di nuovo di Lewis Milestone anch’esso del 1930. Nel 1938 Abel Gance giravaJ’Accuse, con i cadaveri dei soldati che si levavavano dalle tombe in atto di accusa. Tanti altri i titoli che andrebbero rivisti. Non ultimo l’indimenticabile La Grande Guerra del 1959 firmato dal maestro Monicelli, o il coraggioso Uomini Contro del 1970 girato dal grande Francesco Rosi, ma nessuno pur nei tanti meriti, ha la forza espressiva della poetica di Torneranno i Prati di Ermanno Olmi.

si-alza-il-vento-l-xkymx1Si Alza il Vento… tant’è, comunque sia, si deve vivere,il faut vivre. Con questa citazione da Paul Valery, il maestro Hayao Miyazaki titola il suo ultimo lungometraggio d’animazione con il quale saluta il suo pubblico in un nostalgico delicato film d’animazione per cedere il passo al tempo dei suoi anni. Superfluo ricordare gli innumerevoli tributi e premi che hanno costellato la sua lunga carriera cinematografica. Illustratore raffinato, regista innovativo, seppure nella tradizione giapponese dei manga e degli anime, è riuscito sempre a incantare la critica e il pubblico. Basti rammentare alcuni tra i titoli dei suoi film più famosi quali Il mio Vicino Totoro (1989), Porco Rosso (1993), La Principessa Mononoke (1997), La Città Incantata (2002), Il Castello Errante di Howl (2004), Ponyo sulla Scogliera (2008). E ora Si Alza il Vento, e, come dice il poeta, si deve pur continuare a vivere, così come c’è da sperare possa essere per Lo Studio Ghibli, fondato da Miyazaki nel 1985 con l’amico Isao Takahata, altro eccelso regista. Lo studio di produzione è ora a rischio di forte cambiamento, ridimensionamento, se non di definitiva chiusura dell’attività connessa con la produzione dei lungometraggi. La concorrenza e la strenua competizione nel settore è tale da richiedere un’attenta pausa di riflessione per chi utilizza perlopiù metodologie antiche.

Si Alza il Vento, contrariamente ai precedenti film di Miyazaki, assai più incentrati sull’aspetto favolistico e visionario, verte sulla biografia di Jiro Horikoshi, l’ingegnere aeronautico che ideò l’innovativo e strepitoso caccia Mitsubishi A6M, lo Zero, che tanta parte ebbe nelle battaglie aeree durante la II Guerra. Eppure Jiro non ama la guerra, è innamorato del volo. Nei suoi sogni incontra ripetutamente il suo idolo, l’italiano Giovanni Battista Caproni, geniale costruttore e fondatore della omonima azienda aeronautica, che fu all’avanguardia agli albori del volo. Miyazaki orchestra finemente sogno e realtà nella vicenda, facendo muovere il suo protagonista attraverso un arco di una ventina d’anni della storia giapponese, altro aspetto inusuale nei suoi film, che si svolgono in genere nell’arco di una durata temporale molto breve.

the-wind-rises-1-657x360Miyazaki illustra pure le miserie del suo popolo di allora e, tra l’altro, le tremende conseguenze del terremoto del Kanto del 1923. Sullo sfondo dell’intera vicenda si vedono muovere le povere popolazioni di un Paese già allo stremo seppure in preda a forti tensioni guerrafondaie, dalle quali il giovane Jiro si sente assai distante, completamente assorbito dal suo sogno di inventore.

Non manca neppure l’aspetto mélò legato allo sfortunato e disperato amore che unisce il giovane ingegnere alla dolce Nahonoko vittima della tubercolosi. Ma le ali non si fermeranno, voleranno sempre più in alto in un anelito di libertà e seppure le tragiche vicende terrene graveranno sugli animi, il sogno di un’aviazione all’avanguardia si realizzerà in pieno, così come recita la vera storia di Jiro Horikoshi.

Miyazaki volge il suo sguardo ammirato e malinconico alle usanze del tempo. Ci mostra le sue figurine circondandole con gesti misurati nella cortesia, densi nel rispetto. Qualcosa che è andato perso a favore di non si sa bene quale vantaggio. Si alza il vento e il cigno dispiega le sue ali e vola accompagnadosi in un ultimo canto, raffinato, elegante, composto come è stata tutta la carriera del grande maestro al quale va il ringraziamento devoto del suo pubblico di piccoli grandi bambini.