Articoli

3pL’attesa per il nuovo fim di Tim Burton è stata grande. I fan si aspettavano una nuova sposa cadavere, oppure un altro Edward-mani-di-forbice, e perché no, magari un big fish, o un’avventura nella fabbrica di cioccolato. Ed ecco il nostro che si è dedicato anima e corpo al romanzo del giovane Ransom Riggs.

Riggs, dopo aver collezionato una serie di vecchie fotografie, raccolte nei mercatini di cianfrusaglie, ha successivamente ideato una vicenda a mezzo tra il fantasy e l’horror, La casa per bambini speciali di miss Peregrine, pubblicato per la prima volta nel 2011 e ripubblicato nel 2016 in occasione dell’uscita del film dal titolo miss Peregrine e la casa dei bambini speciali.

Buona fortuna editoriale stanno ottenendo anche i due sequel, Hollow City e l’ultimo della trilogia, La biblioteca delle anime.

Poi è arrivato lui. Per il suo film, Tim Burton si è avvalso della sceneggiatura di Jane Goldman, appassionata di paranormale, autrice, tra gli altri, dello script di X-Men, L’inizio e di Kingsmen, Secret Service.

I presupposti per alimentare un’attesa trepidante ci sono stati davvero tutti per una storia di freaks coinvolti in loop temporali contro i cattivi, i Vacui, pronti a divorare gli occhi delle loro vittime.

Dopo la misteriosa morte dell’amato nonno, Jacob si reca nel Galles per inseguire le tracce del passato del vecchio, che tanto ha influito sulla sua infanzia con i racconti di bambini dotati di strani poteri.

Il ragazzo parte alla ricerca della casa misteriosa e della direttrice altrettanto fantastica dei quali ha tanto sentito parlare dal nonno. Non sa ancora che si troverà coinvolto nell’eterna lotta del bene contro il male, qui incarnato da orrendi mostri divoratori di occhi all’inseguimento della vita eterna.

La direttrice, miss Peregrine, capace di trasformarsi in un falco pellegrino, lo accoglie a braccia aperte e via via gli spiega le peculiarità della misteriosa casa, abitata da ancor più incredibili bambini superdotati e dei pericoli dai quali deve proteggerli.

Jacob viene a contatto con il bambino invisibile, la bimbetta dalla forza erculea, quello che sputa sciami di api, i gemelli mascherati e con gli altri freaks, tutti dotati di superpoteri, che sembrano un’emanazione dalle foto di Diane Arbus .

Colei che più affascina Jacob è senza dubbio Emma, più leggera dell’aria, costretta a calzare pesanti scarpe di piombo per non volar via, che si mostrerà capace di padroneggiare il suo elemento con il fiato.

2p

miss Peregrine protegge amorevolemente, benchè con estrema fermezza, i suoi ragazzi speciali. Soprattutto dal villain di turno, il terribile e temible Barron che con i suoi Vacui, meglio chiamarli Hollowgast, è alla caccia di tutti i bambini ‘peculiar’ per privarli degli occhi e acquisire il loro potere.

Il magico mezzo per la salvezza dei ragazzi è dato da un continuo loop temporale che consente a miss Peregrine di tenere la casa nascosta, al riparo dai pericoli. Tant’è il temibile Barron non tarderà a contrastare l’incantesimo e l’inevitabile battaglia avrà inizio.

Burton regala ai fan alcuni dei tocchi magici del suo campionario di grande regista visionario. Usa con maestria e discrezione lo stop-motion, ma solo a tratti (tecnica che necessita di un lungo e costoso tempo di produzione). Adotta a piene mani tutto ciò che la computer grafica è in grado di garantire allo spettacolo e forse eccede nel suo utilizzo, sebbene alcune sequenze siano pregevoli (l’emersione della nave sommersa, la grande battaglia del luna park).

Ma resta sempre inequivocabilmente lui, Tim Burton, ad avere l’ultima parola, anche se a fronte di una sceneggiatura a tratti un po’ raffazzonata, che non sempre rende merito ai magnifici bambini speciali di Riggs.

Eva Green è miss Peregrine, dal fascino vagamente dark e conturbante. Come lei poche attrici sono capaci di giocare al meglio con il mistero. Quello lo tiene così ben celato dietro i suoi magici occhi.

Asa Butterfield è Jacob, il protagonista. Arriva direttamente dall’Hugo Cabret di Scorsese. E’ cresciuto, ma risulta un po’ monocorde e scialbo nella sua interpretazione.

Di ben diverso spessore è Ella Purnell nei panni di Emma, la ragazzina dominatrice dell’aria, che si avvia a una carriera di successo. Ne sentiremo parlare spesso.

Ben poco si può dire del villain Barron, interpretato dall’onnipresente ghigno di Samuel L. Jackson. E’ sempre lui, inconfondibile, a dare corpo ai suoi personaggi, sebbene le prove migliori le abbia offerte con le regie di Quentin Tarantino.

Quasi un cameo, un’incolore presenza della grandissima Judi Dench. Molto meglio risulta Terence Stamp nei panni di un nonno iperprotettivo e visionario.

Ma… chi ha riconosciuto Rupert Everett? Chi l’ha visto?

In conclusione, Tim Burton rimane l’indiscusso maestro di un certo cinema visionario, ma c’è da aspettarsi quel tocco magico in più che lo ha sempre contraddistinto, sempre che non si lasci traviare dalle produzioni mainstream. Facci sognare ancora Tim.

Dario Arpaio

 

 

 

 

 

 

 

 

f3Free State of Jones di Gary Ross con Matthew McConaughey esordisce con successo al TFF 34.

Il regista, Gary Ross, ha lavorato al progetto di questo film per oltre 10 anni, da grande appassionato qual è di storia americana, avvalendosi nelle sue ricerche del supporto di storici accreditati.

Ogni possibile minuto documento, che potesse dar luce alla figura del contadino Newton ‘Newt’ Knight e alla sua epica ribellione, è stato raccolto ed esaminato con cura.

Ross ha dovuto interrompere la ricerca delle fonti solo nel 2012, in occasione del suo acclamato Hunger Games, per poi tornare a dedicarsi anima e corpo a Newt e alle sue gesta.

La vicenda del Libero Stato della Contea di Jones, nel Mississippi, risale ai fatti del 1863, in piena Guerra Civile. Newton Knight è un contadino arruolatosi con i Confederati, in qualità di infermiere, pur rimanendo fortemente contrario alle motivazioni della guerra dell’uomo ricco combattuta dai poveri.

Alla morte in battaglia del nipote, fugge con il corpo del ragazzo e torna a casa. Da quel momento diventa un rinnegato. Dopo uno scontro con i confederati per impedir loro di razziare alcune fattorie della contea, diviene un fuggitivo. Si nasconde nel dedalo delle paludi, tra il Mississippi e la Lousiana, aiutato da un gruppo di neri fuggiaschi, ai quali si affiancano nel tempo altri contadini in fuga dalla guerra.

Le presunte necessità di un’economia di mercato, basata sul lavoro a basso costo dei neri, hanno motivato i presupposti della guerra, voluta perloppiù dai grandi proprietari terrieri, quelli che sputano sui principi costituzionali di eguaglianza e di parità di diritti di ogni essere umano.

Newton Knight si ribella al Sud e il suo carisma e le sue gesta lo pongono a capo di un esercito di oltre 500 uomini. Fonda lo Stato Libero di Jones.

f2

L’Unione stessa, alla quale Knight offre e chiede aiuto, lo supporterà solo marginalmente e saranno solo loro, i contadini delle contee di Jones e di Piney Woods, a fronteggiare i Confederati, grazie anche alla situazione geografica militarmente vantaggiosa. Nelle paludi, dove hanno inizialmente trovato riparo, difficilmente possono essere contrastati.

La guerra civile ha finalmente termine. Lincoln vince. Lo stato libero di Jones vince. I neri ottengono gli stessi diritti dei bianchi, ma, di fatto, solo a parole. Nasce il Ku Klux Klan e le razzie riaprono uno scenario di terrore.

Newt, intanto, sposa una donna di colore fuggita dalla schiavitù. Non fa distinzione di razza, stessi diritti e doveri per chiunque. La lotta continua, ma il razzismo ha le sue radici profonde nell’ignoranza. E’ solo arrogante sottocultura, tutt’oggi più che manifesta.

Newton Knight durante tutta la sua vita combatte per la libertà di ogni uomo, quale che sia il colore della pelle, ma nemmeno un suo pronipote avrà vita facile. 85 anni dopo la fine della guerra di secessione, Davis Knight si farà condannare dallo stato del Mississippi per non voler accettare il forzato annullamento del suo matrimonio con una donna bianca in contraddizione con le leggi razziali. Per lo Stato lui è solo in apparenza bianco, ha 1/8 di sangue nero.

Free State of Jones è un film assai ben diretto da Gary Ross. Narra i fatti senza scadere nell’apologia o nel facile sentimentalismo. Grande cura è stata data ai minimi dettagli di scena, ai costumi, a ogni accento.

Mirabili le sequenze iniziali della battaglia tra nordisti e sudisti.

Matthew McConaughey, da par suo, si cala anima e corpo nel personaggio di Newt e ci offre la figura del grande ribelle senza eccessi, con misurata recitazione.

D.A.

 

 

 

2sSam Was Here del francese Christophe Deroo debutta al TFF 34. Il giovane regista, affermatosi a livello internazionale per i suoi corti, espande e trasforma proprio uno di questi, Polaris, in un interessante lungometraggio.

Sam Was Here ha anche il merito di essere stato compattato in soli 75 minuti, concentrando ritmo ed esecuzione in un montaggio di fattura vagamente hitchcockiana, condita con un pizzico di Stephen King .

Girato in soli 12 giorni, il film è ambientato nel deserto del Mojave in California, dove il Sam del titolo è vittima, suo malgrado, di una misteriosa caccia all’uomo da parte di alcuni rednecks, i bifolchi locali, in un crescendo emozionale, forte e ricco di suspence.

Sam è in viaggio alla ricerca di nuove opportunità di mercato per conto del suo titolare, in attesa di tornarsene a casa per il compleanno della figlia, quando si ritrova con l’auto in panne, sperduto nel deserto.

Attraversa il nulla di pochi miseri agglomerati di fatiscenti motorhome e qualche isolato motel da pochi soldi. Tutti incredibilmente svuotati di ogni presenza umana.

Il film è ambientato nel 1998. All’epoca, i cellulari non erano così diffusi come oggigiorno. Ed ecco che Deroo mette di fronte al suo Sam telefoni pubblici a tastiera, o i vecchi apparecchi in uso a quel tempo, come unica alternanza alla solitudine desolata.

Ad ogni sua chiamata di aiuto risponderanno solo fredde segreterie telefoniche che lo precipiteranno ancora di più in un disperato sconforto quando si renderà conto che da un fottuto talkshow radiofonico lui stesso viene indicato come un pericoloso serial killer pedofilo.

E l’assenza di presenza umana si fa più cupa e angosciosa. Qualcuno lo sta davvero inseguendo per fargliela pagare, a torto o a ragione.

Eddy è il diabolico speaker radiofonico che guida e sobilla la rabbia dei rednecks, seguendo le tracce del malcapitato attraverso le videocamere di sorveglianza dei motel dove lo sfortunato si ferma per la notte, senza che nessun receptionist possa mai leggere davvero la sua firma: Sam si è fermato qui.

Deroo sembra volerci ricordare quanto le strade del mondo non siano poi così sicure e, soprattutto, come chiunque possa aizzare, sobillare, inveire e sovvertire ogni buon senso attraverso i media. Peggio ancora quelli televisivi, diremmo noi.

3s

Sam Was Here rappresenta (volutamente o meno) una cruda metafora della decadenza del nostro tempo quando un possibile linciaggio morale può pericolosamente avere il sopravvento sulla razionalità con effetti aberranti.

Non resta che il plauso al giovane regista e al suo protagonista, Rusty Joiner, efficace nell’esprimere angoscia, terrore e, una inutile vana rabbiosa rivalsa.

D.A.

 

Era appena volato

il passero dal ramo.

Sai, ancora spiavo di nascosto

il tuo coro ubriaco

e la libertà rubata

nella stanza di un hotel.

Pioveva.

Piovevano anche i sogni

(e le malinconie).

Una sigaretta, ora,

non basta più.

L’addio è sgualcito.

Resta un borsalino,

spazzato via

 dalla pioggia.

D.A.

 

iodanielblake2Compassione, commozione viscerale, rabbia, indignazione, sono gli ingredienti di Io, Daniel Blake, l’ultimo film di Ken Loach, vincitore della Palma d’Oro a Cannes, dove il regista ha sempre ottenuto calorose accoglienze. Analogo riconoscimento ebbe nel 2006 il suo struggente Il vento che accarezza l’erba. Così come pure Venezia e Berlino hanno premiato Loach con un Leone d’Oro e un Orso d’Oro alla carriera. Lui, ormai ottantenne, ha voluto tornare dietro la macchina da presa ancora una volta e con la grinta di sempre, affiancato dal suo fidato sceneggiatore Paul Laverty, racconta la storia di un carpentiere sessantenne e delle sue amare peripezie per sopravvivere cercando di mantenere la schiena dritta.

In seguito a un infarto, Daniel non può più lavorare ed è costretto ad affidarsi al sussidio statale. Si ritrova fagocitato in un percorso che si rivela aberrante e grottesco, tra scartoffie e incongruenze tragicomiche. Durante una delle tante visite al Centro per l’Impiego incontra Katie, una giovane madre che, sola e con due figli, si trova lei pure ad affrontare la melma della burocrazia per ottenere ciò che, di fatto, è un diritto. Tra Daniel, Katie e i due piccoli si instaura un’amicizia forte, tale da alleggerire le pene quotidiane. Ken ci offre una narrazione piana intorno ai contenuti del disagio e della solidarietà e la rabbia cresce nel vedere come e quanto debbano subire i suoi personaggi nel tentativo, spesso vano, di non farsi calpestare la propria dignità. Altrettanto Loach sussurra (forse) un alito di speranza che gli viene dalla sua fede socialista: gli uomini sanno aiutarsi, sostenersi, solidali nelle avversità. Non tutti sono ottusi aziendalisti, tronfi dietro il paravento di regole e divieti astrusi. C’è pure chi sa vedere oltre la propria piccola misura.

Nell’animo del vecchio regista rimane forse ancora vivo un sussulto di quella che un tempo era la coscienza di classe, la consapevolezza di essere ultimi e la necessità di stringersi vicini intorno al fuoco per riscaldare la propria esistenza e, soprattutto, trovare la forza per reagire fattivamente. O forse è solo il retaggio della storia di un grande vecchio del Novecento, Ken il Rosso. La sua macchina da presa è ancora viva e capace di graffiare il nostro sguardo, accarezzando a tratti l’anima, muovendo sapientemente le corde della tenerezza. Io, Daniel Blake si chiude sulle parole vibranti che Loach mette in bocca a Katie nel suo fermo incitamento ai Governi – quasi un J’Accuse – di non dimenticare che al centro del loro operare ci devono essere, innanzi tutto, i valori e la dignità di ogni essere umano.

Dario Arpaio