Harry Dean Stanton, scomparso nel settembre del 2017, è il protagonista assoluto del delizioso film Lucky, opera prima dell’attore John Carroll Lynch in veste di regista. Presentato al Locarno Film Festival ha ottenuto il Premio della Giuria ed è stato candidato per il Pardo d’Oro. Altrove ha ottenuto ampi consensi di critica e di pubblico.
Lui, Harry Dean Stanton, novantunenne, è il corpo e l’anima di Lucky, il suo ultimo personaggio, quasi si sentisse chiamato a impersonare proprio se stesso nei panni del vecchio dinoccolato e cinico che cammina con passo cadenzato lungo le strade assolate di una anonima cittadina nel deserto del sud degli Stati Uniti.
Non è più solo il caratterista amato da registi del calibro di David Lynch, Wim Wenders, Francis Coppola, Sam Peckinpah che lo hanno diretto in oltre 200 film. Spesso per ruoli secondari, almeno fino a quel magico primo tempo di Paris Texas (Palma d’Oro a Cannes nell’84), quando Wenders lo fa camminare attraverso il deserto della sua disperazione di marito tradito, di uomo solo, accompagnato solo dalle struggenti note di Ry Cooder.
E cammina Dean Stanton. Il suo Lucky è invecchiato, ha il volto scavato dal tabacco Virgina delle tante sigarette. Non manca mai di ripetere i suoi esercizi yoga mattutini. Beve caffè americano con tanta crema. Cammina. Nella anonima cittadina i tempi sono scanditi dal vento del deserto e gli incontri e i gesti sono sempre gli stessi del giorno prima e di quello a venire.
Ogni sera Lucky si reca nell’amata roadhouse a bere bloody mary stuzzicando gli amici. Uno in particolare, il vecchio Howard, al quale David Lynch si offre con garbo e ironia. Howy è visibilmente disperato per la scomparsa di George Washington, la sua testuggine centenaria in fuga nel deserto, chissà dove. Un evento improvviso e inatteso nella vita di Howard. Così come accade a Lucky quando si ritrova in terra, pur senza perdere i sensi, lasciandolo profondamente turbato, posto dinanzi alla sua fragilità di anziano.
D’un tratto Lucky riflette sul significato profondo del ‘realismo’. Lo fa attraverso le sue amate parole crociate, quando il gioco lo porta a consultare il grande vocabolario poggiato religiosamente su di un leggio. Il gioco della realtà è come precipitato, improvvisamente nel buio. Le parole e il loro significato inaspettatamente turbano Lucky e la sua routine quieta e misurata: scopre di avere paura. Tutto il bello della vita è ormai alle spalle. Di fronte a sè solo un ignoto oscuro.
Ma Lucky è coriaceo. Rinfresca la tiepida semplicità della vita vissuta nel presente in quanto tale, ed è ancora capace di sorbire linfa e ossigeno dai minuti piccoli istanti di serena contemplazione della vita stessa.
Riscopre anche la gioia e la festa quando viene invitato da una amica per un compleanno messicano. Ci sono i mariachi e Harry Dean e Lucky si esibiscono in uno dei più toccanti momenti del film.
John Carrol Lynch con il suo Lucky esordisce nella regia firmando un film aggraziato e ben girato su di uno script tanto leggero quanto intensamente riflessivo sui significati più alti della vita. E se di Lynch attore ricordiamo tra le sue interpretazioni Fargo o il più recente The Founder, non possiamo non apprezzarlo nei panni di regista capace di coniugare leggerezza e dramma esistenziale con tocco fermo e delicato.
Una volta di più va applaudita la prova di Harry Dean Stanton che ci lascia poco dopo aver vestito i panni del suo Lucky, regalandoci un ultimo sorriso venato di malinconia tra le rughe di un volto che non dimenticheremo.
E intanto, la testuggine George Washington ancora cammina nel deserto.
Dario Arpaio